Scoppiato da poco il caso Codogno, nella mia struttura – ubicata in una delle province più colpite d’Italia dal coronavirus – erano scattate le prime misure draconiane anticontagio: divieto di visite di amici e parenti ai pazienti, sospensione del servizio diurno, chiusura degli ambulatori e dei prelievi. Rimanevano, praticamente, i soli degenti ed il personale. Potevamo accedere mia mamma ed io, con speciale permesso per ragioni di indispensabile assistenza a mio padre.

Penso fosse una domenica tra fine febbraio e inizio marzo 2020, ero giù nell’atrio deserto a bere un caffè al volo con un medico ormai amico. Ve ne ho parlato di tanto in tanto, è un grande esperto di integratori naturali e fitoterapia, quindi andiamo a braccetto. Da un ufficio esce il vice presidente della struttura, si ferma per due chiacchiere con noi interrompendo sul più bello un proficuo discorso sul resveratrolo. L’argomento – va da sé – non poteva che spostarsi sull’epidemia. Ad un tratto, il vice presidente se ne esce con una idea geniale. “Ah potessi fermarmi a dormire qui dentro, lo farei. Siamo blindati, a tenuta stagna, il virus qui non entra di certo”, tuona il dirigente sprizzando la soddisfazione di chi sa di avere la situazione saldamente in pugno. Io, invece, me la sghignazzavo sotto la mia mascherina celeste, ritenendo che fosse impazzito. La struttura, infatti, riceveva (e riceve) quotidianamente pazienti dall’ospedale di provincia, uno di quelli più menzionati nei TG, e pensare che fosse limite invalicabile per il corona mi pareva una cacchiata fotonica, ma non mi andava di contraddirlo sgretolandogli l’illusione.

Da allora, lo sapete, ogni giorno al mio ingresso vengo sottoposto al controllo della temperatura corporea. Pochi istanti ma di grandissima apprensione, ad un 37 sul display potrebbero sparare a vista, dato il clima teso che si respira tra le mura del nosocomio.

Veniamo ai giorni nostri. Raccontavo come le misure anticontagio si siano fatte nelle settimane via via più drastiche: porte chiuse di ogni stanza, finalmente camici più o meno monouso per il personale, mascherine dalle forme più bizzarre, cuffie per la testa e occhiali da operaio dell’Ilva. Le voci ormai si susseguono e con ragionevole certezza veniamo a sapere che nel corridoio – proprio nella stanza che segue e pure in quella che precede la nostra – ci sono due “pazienti Covid”, per dirla in gergo medico. Ma non finisce qui.

Ieri era in servizio una delle infermiere a cui si può estorcere qualche info in più, così le chiedo che fine abbia fatto l’amica dottoressa del reparto, non la vedo da una settimana. Difficile si sia presa le ferie in un momento del genere. E di fatti è a casa, ma col coronavirus, mentre il direttore sanitario è purtroppo ricoverato nell’ospedale di riferimento per lo stesso motivo. “E la tizia della portineria?” – chiedo – “non c’è da un po’, sbaglio?”. Anche lei in isolamento per Covid19.

Alla faccia del “potessi dormire qui dentro!”, ho subito pensato. Mi sa che oggi, al mio ingresso, sarò io a provare la febbre a loro, e poi decidere se entrare o tornarmene a casa 😀


Nessuna intenzione di sminuire quello che – purtroppo – è un problema serio per le persone colpite. Il post racconta una storia vera, semplicemente con la chiave un po’ ironica tipica di questo blog.

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