Ecco la quarta parte della storia. Fin qui ho raccontato una vicenda personale che ritengo rappresentativa di quanto sta accadendo da troppo tempo nelle strutture di degenza italiane. Nel post odierno intendo parteciparti di alcune considerazioni più generali: non mi riferisco all’ospedale in cui è ricoverato mio padre, dove riconosco siamo sempre stati trattati bene e in amicizia, ma a situazioni che mi limito a fotografare – da modesto cronista e blogger – di cui mi hanno informato gli amici che hanno a che fare con malattie e disabilità. Basta consultare social e forum dedicati ai disabili per prenderne atto.
Tornando per un istante a quanto stavo raccontando (ti consiglio di seguire dall’inizio: parte 1 – parte 2 – parte 3), ti potresti chiedere come ho fatto – in qualità di caregiver – ad assistere mio padre in ospedale per quasi tutto il 2020 senza limitazioni oltre l’ovvio rispetto delle regole di prevenzione del contagio.
Il motivo sta scritto in tutti i vari DPCM fin qui emanati, dove – per fortuna – si stabilisce che:
L’accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (RSA), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani, autosufficienti e non, è limitata ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura, che è tenuta ad adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione.
Col tempo, pur permanendo tale eccezione, lo scenario è progressivamente mutato con l’introduzione di restrizioni (non sempre comprensibili, ne parlavo nel post precedente). Tra circolari del Ministero della Salute o delle Regioni che intimavano un giusto rigore nelle misure anti-Covid, e soprattutto con i timori dei singoli dirigenti quanto a cause legali o gogne mediatiche, l’indicazione del DPCM è stata de facto indebolita.
La ragione è semplice, a mio avviso. Chi ha scritto tale norma a tutela dei più fragili e bisognosi di assistenza extra, pur animato da lodevole buonsenso, non ha fatto i conti con lo stato d’animo di chi vive in trincea: medici e dirigenti sanitari delle strutture. Questi, infatti, in un contesto di pressioni insostenibili, hanno finito per interpretare la norma di cui sopra come facoltativa, ed in effetti leggendola bene lo è sul serio.
Il caregiver, pertanto, non viene considerato un vero e proprio diritto, piuttosto una sorta di possibilità gentilmente concessa da ogni Direttore Sanitario, a propria discrezione (e, presumo, responsabilità). Sono evidenti le buone intenzioni del legislatore, resta però la difficile applicazione nel mondo reale se il caregiver viene inteso non quale necessità inderogabile ma una eventualità da stabilirsi dal basso.
Cosa voglio dire? Se lasciamo la discrezione al Direttore Sanitario di turno, questi avrà come primo obiettivo – ça va sans dire – la propria tutela da rogne e grane, ed ecco che i buoni propositi vanno a farsi benedire anzichè passare dalla carta all’attuazione in corsia.
Il discorso andava impostato diversamente: il caregiver – per pazienti in particolari situazioni (definite a monte) – è un diritto fondamentale da garantire ex ante, nel rispetto delle regole di prevenzione: mascherine, sanificazione mani, uso di guanti, prova della temperatura, percorso interno. L’accesso dell’assistente familiare per malati gravi doveva rappresentare un obbligo cui ciascun dirigente doveva attenersi, non una facoltà! Ciò ha comportato due prevedibili effetti:
- in quest’ultimo anno dove il protagonista indiscusso è il coronavirus, negli ospedali la figura del caregiver è stata assimilata via via ad una sorta di privilegio o concessione, talvolta addirittura una seccatura, con caregiver inginocchiati a supplicare l’applicazione della facoltà prevista dal DPCM. In verità, il caregiver è la risposta ad una situazione di oggettiva ed eccezionale drammaticità: dover essere assistiti da un familiare/badante è una tremenda sfortuna, conseguenza della severità della propria condizione;
- Un Direttore Sanitario, trovandosi la patata bollente in mano (consentire o meno l’accesso), preferirà liberarsi del problema e, incolpando il Covid di tutti i mali, andrà a salvaguardare sè stesso a discapito di disabili gravissimi ed altre condizioni parimenti flagellate dal destino. Il tutto, per altro, non perchè la presenza del caregiver comporti chissà quale rischio esponenziale di contagio (seguendo le regole), ma per mera tutela formale tipica della medicina difensiva.
La norma sopracitata andava pertanto costruita come obbligo – e non facoltà – per un Direttore Sanitario, il quale avrebbe dovuto rispondere soltanto in caso di palesi violazioni delle regole di riduzione del rischio. Si è passati, gradualmente ed inconsapevolmente, da strutture ed ospedali al servizio della malattia, a disabili e caregiver il cui interesse (qualità di vita, assistenza) è stato subordinato ai potenziali contenziosi a carico dei dirigenti. Condivido che un responsabile medico debba operare con le spalle coperte, ma a proteggergliele sia la legge, non la messa al bando del caregiver.
A poco servono infatti le dichiarazioni di ministri e politici a vario titolo, dove si manifesta l’intenzione di consentire ai più sfortunati di poter contare sul proprio assistente familiare: se non si cambia la facoltà in obbligo (evitando restrizioni tragicomiche come quelle di orario, quasi che la disabilità seguisse l’orologio), rimarranno soltanto buoni propositi, con malati costretti a disumane privazioni, e caregiver – con le vite già massacrate dal ruolo – a mendicare un ingresso non per un luna-park, bensì per una cazzo di stanza d’ospedale dove sporcarsi le mani di secrezioni tracheali, saliva infinita e merda.
La politica è informata di tutto ciò, o si ritiene che grazie all’eccezione prevista nel DPCM i disabili siano assistiti come meritano?
È utopia pensare che un caregiver a fine giornata debba ricevere un ringraziamento dal personale per aver prestato un’opera preziosa, gratuita e discreta a sostegno del malato, sgravando anche in (buona) parte il personale stesso da un’infinità di piccole – e non sempre così piccole – mansioni. Ora, però, stiamo rapidamente scivolando all’estremo opposto nell’inconsapevolezza generale, con i prestatori di cure percepiti come pericolosi intrusi, degli scassaballe che sarebbe meglio andassero al mare o almeno in piscina. Nessuno gliel’ha mai detto in faccia, naturalmente, ma è il sentore di parecchi. Non ce l’ho nemmeno con gli operatori sanitari, anch’essi vittime della situazione e dell’isteria di massa da Covid che fa di loro un bersaglio pure quando danno il meglio.
La soluzione c’è e viene dalla politica: tramutare da subito la facoltà in obbligo, tutelando così sia i direttori sanitari che i malati gravi ed i loro caregiver, magari anche evitando limiti e vincoli insensati su persone già allo stremo. Siano ospedali e strutture ad adattarsi alla disabilità: ad un anno dall’inizio dell’emergenza Covid si può trovare equilibrio tra precauzioni e assistenza, almeno per pazienti in gravi condizioni. È la sanità – indirizzata e garantita dall’alto – a doversi attrezzare e riorganizzare in favore dei disgraziati, non questi ultimi a vedersi bastonati e sballottati per la serenità legale dei dirigenti. “E il rischio Covid, dove lo mettiamo?” qualcuno potrebbe obiettare. Anzitutto risponderei che il Covid è un bel problema ma non esiste solo quello, restando in tema aggiungerei che se è accettabile il rischio di un operatore non vaccinato che tratta decine di pazienti, lo è altrettanto quello – assai più contenuto – di un caregiver che (munito di DPI) assiste un solo degente già vaccinato, senza incontrare nessuno.
Fin quando si decreteranno facoltà anzichè obblighi, avremo la politica convinta di aver fatto il suo mentre noi, quaggiù continueremo a strisciare supplicando favori, con malati gravi a ridursi velocemente in zombi (efficace metafora di un amico caregiver che mi raccontava del proprio caro isolato in un ospedale).