Con la progressione della malattia di mio padre, rispetto a novembre 2014 quando andammo in Israele per il prelievo dal quale avrebbero ricavato le cellule staminali, vivevo la nuova partenza per Tel Aviv come un incubo. Anzitutto non dovevamo stare tre giorni, bensì sette; inoltre il fisico di mio papà era tutt’altra roba. Siamo andati mesi prima che camminava (male), che parlava (male), che mangiava (male), che faceva le scale (male), che andava in bagno (male). A marzo ’15 invece non camminava, non parlava, mangiava solo roba frullata, non andava in bagno da solo ma serviva un piano di evacuazione con almeno due persone preparate. Insomma, un casino. Fossi stato uno sprovveduto o uno convinto che le staminali potessero dare buone chance avrei anche potuto essere animato da una certa scarica adrenalinica, invece il sapere che si partiva quasi per niente rendeva tutto ancor più snervante.

Ricorda sempre che non sono un medico, quanto leggi in questo sito è solo il racconto di una storia e del mio parere personale. Per informazioni attendibili e per qualsiasi iniziativa devi consultare un medico.


Abbiamo dovuto prendere un albergo nello stesso grattacielo in cui c’era la clinica, visto che era impensabile andare e venire da una sistemazione lontana, in taxi quattro volte al giorno. Naturalmente, l’albergo nel palazzo della clinica era uno soltanto ed aveva cinque stelle, ma che dico cinque? Una quindicina, almeno. Ed un prezzo proporzionato. Con un disabile al seguito – e mica uno che s’era rotto un ginocchio – la reception ci costrinse a prendere la camera attrezzata, quella con il bagno grande da poterci girare dentro in bicicletta, a fronte di un “piccolo” supplemento. C’erano poi un’altra vagonata di problemi non indifferenti.

Mio padre da mesi dormiva a casa su una poltrona per poter stare diritto col busto o per lo meno non coricato del tutto (avevamo già provato a letto, arrivando a montare una impalcatura fino a 7 cuscini, ma senza successo. Lui è sempre stato un perfezionista, del resto) e in albergo non c’erano nè poltrona reclinabile e nemmeno il letto elettrico. Quindi dove farlo dormire fu una domanda che mi perseguitò per tutte le 4 ore del volo. Una delle altre mille questioni che mi agitavano era il cibo: come diavolo faccio coi frullati? Mi ero munito in valigia di un minipimer – altrimenti detto frullatore ad immersione – con il quale avrei triturato anche del legno, fosse stato necessario. Tieni a mente che l’hotel, pur principesco, non aveva il ristorante. Quindi te la cavi per la colazione, dove avevo chiesto di poter prendere al buffet della roba da portare in camera e sminuzzare, ma poi a pranzo e cena che fai? Uscire con mio padre era inimmaginabile, non è infatti il classico paziente che sta più o meno in carrozzina e ci fai un giretto, e mi pareva irrealistico sedersi ad un ristorante per chiedere un petto di pollo frullato con un cucchiaio di Lunasin (che per me rimane una “sòla”, anche se Bedlack dice ci farà un trial). Ho passato 7 giorni ad inventarmi qualunque cosa, arrivando persino ad ordinare del take-away (cibo da asporto, con consegna) da un ristorante russo di Tel Aviv. Una cosa bestiale. Ma ormai non temo più nulla: lasciatemi da solo in un posto sperduto e vedrete ne uscirò vivo!

Procediamo con ordine.

Era il primo venerdì di marzo 2015, alle due di notte sarebbe venuto a prenderci mio zio per caricarci e portarci a Malpensa, calcolata una buona mezz’ora per sistemare mio padre in macchina e altrettanto per tirarlo fuori. Ovviamente fa freddo e piove, il morale… “alle stelle”. Da Malpensa partiamo in quattro: io, mio padre, la carrozzina e mia madre con il compito di frullare ciò che avrei selezionato con metodo durante il piacevole soggiorno che ci attendeva. Io ho da fare tutto il resto: alza, solleva, posa, aggiusta, traduci, sistema, procaccia il cibo, parla con medici, parla con infermieri, spingi carrozzina, piega carrozzina, riponi carrozzina, fai clistere, solleva, porta in bagno, svuota, alza, lava, asciuga, stira, vesti, svesti, allaccia. E questo era il 20%. All’aeroporto milanese chiediamo l’assistenza e devo dire che ci hanno dato una buona mano dal percorso all’interno fino alla sistemazione sull’aereo che partirà in orario e arriverà in anticipo. Anche al Ben Gurion l’assistenza – a questo secondo giro era  purtroppo indispensabile – ci consente di velocizzare tutto, poi col taxista dell’altra volta raggiungiamo l’hotel. Prima ispezione: “pà, dormi a letto, con un po’ di cuscini dietro?“. Non muoveva granchè le braccia, ma dallo sguardo intuisco che – potendo – mi avrebbe fatto il gesto dell’ombrello. “Credevi di cavartela con così poco?“, avrà pensato dentro di sè. Dopo un tempo sufficiente a vedere il film “I 10 Comandamenti” (eravamo pur sempre nei luoghi dell’Antico Testamento) in slow motion, riusciamo a trovare un compromesso: il divano, opportunamente riadattato con lenzuola e cuscini per ricavarne una sorta di poltrona più o meno riconducibile a quella a casa. Ma… con il patto di cambiargli posizione ogni ora, oltre alle interruzioni per l’odiatissima pipì (non era ancora periodo di cateteri esterni). Quella fu la conferma che avrei trascorso sette giorni senza dormire una mazza, ma ero allenato. Sembravo ormai la vittima di una mistress sado-maso, ma senza quel lato libidinoso che potesse alleggerire fatiche e sopportazioni. Primo giorno drammatico, quindi. Secondo me, mio padre era pure uscito un po’ di melone, tra angoscia e tensione pensai che le sue facoltà cognitive fossero irrimediabilmente compromesse. Per fortuna non fu così, ma trascorsi mezz’ora a letto piangendo, discutendo con Dio da casa Sua. Il giorno seguente iniziamo a prendere le misure e si instaura una certa routine dall’asporto presso il buffet della colazione fino alla catena di montaggio tu-frulla-che-io-imbocco. Quel testone di mio padre si convince di essere – di punto in bianco – del tutto impossibilitato a bere. Così, su due piedi. Anzi, su due ruote. Dopo essermi incazzato come non accadeva da quando una morosa mi lasciò per un animatore turistico pure brutto, vedo che il risultato è lo stesso: zero. Allora prendo l’ascensore che va al ventesimo piano e chiedo alla clinica (l’appuntamento in realtà era per l’indomani) se posso portargli mio padre per fare qualche flebo reidratante. Acconsentono senza fatica, e vorrei ben vedere visto il generoso bonifico. Chi ci accoglie scambia due chiacchiere con me – ci eravamo già conosciuti pochi mesi prima – e con mia madre (per la prima volta lì), solo dopo riconoscono mio padre ed unicamente perchè era con me. Non lo avrebbe riconosciuto nessuno, pensa che bulbare maledetta! Via via riaffiorano tutti i personaggi dell’occasione precedente: il dottortaxista, l’infermierautista e via di seguito, con la sensazione di essere “in ottime mani”. Questa è più che altro una battuta, se parlo seriamente devo dire di non avere nulla da recriminare.

Qual era, allora, il programma? Per i primi due giorni avrebbero fatto trattamenti complementari, per stimolare l’afflusso sanguigno al cervello: dapprima con una macchina ad impulsi, e poi con delle flebo-laser futuristiche, che anzichè un liquido ti iniettavano luce di vari colori, come accadrà probabilmente in un ospedale nell’anno 2133. Ero convinto fossero autentiche baggianate, ma trovai qualche attendibile riscontro scientifico, sì persino sui laser endovena nella SLA. Non era una cavolata poi così grossa, e aveva senso (ma andava protratta…). Il terzo giorno l’infusione delle staminali, poi ancora i due trattamenti di cui sopra fino al venerdì. Il sabato, ripartenza per Milano. Era quasi finito il primo giorno e speravo già fosse l’ultimo. Vado a letto con… mia mamma! Immagina l’allegria! Dalla vetrata della stanza si ammira il panorama di una Tel Aviv notturna mozzafiato ed attendendo il triste quanto puntuale rantolo di mio padre, per avvisarmi che era il momento di girarlo un po’ o di cambiare l’acqua al pesce.


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