Con la morte di mio padre questo blog dovrà per forza cambiare filo conduttore. La lunghissima battaglia, come sapete, è terminata nella giornata del 20 luglio 2021.

L’inizio della fine, però, prende forma soltanto alcuni mesi prima. I dettagli sono nei post precedenti, non ha senso ripetersi qui. Se dovessimo tracciare una sorta di linea temporale, è a novembre 2020 che tutto si complica quando la Direzione Sanitaria dell’ospedale annuncia che a me e mia madre – caregiver di disabile gravissimo – saranno da lì in avanti consentite sole 3 ore di presenza/assistenza giornaliere. Un incubo: ciò equivaleva a lasciare da solo, seppur in ospedale, un malato di SLA per 21 ore su 24. Una follia, inutile quanto a prevenzione del contagio e capace soltanto di distruggere la già precaria qualità di vita del malato. Ci siamo comunque adattati, in quelle 3 ore sembravo Superman: cercavo di concentrare fino all’inverosimile tutti gli interventi che prima eseguivo durante l’intera giornata. Intensificavo le aspirazioni, gli aerosol, mixavo gli integratori indispensabili, i probiotici. In fin dei conti si trattava di resistere un paio di mesi: a gennaio 2021 sarebbero arrivati i vaccini, per lo meno per i degenti delle strutture sanitarie. Da lì, con il paziente vaccinato, ci avrebbero senz’altro ripristinato la totale assistenza. Arrivano i vaccini, acconsentiamo senza discussioni alla somministrazione per mio padre e… sorpresa! Le 3 ore giornaliere passano allo zero assoluto. Incredibile ma vero. Nei cinque mesi successivi la storia è nota: il malato soffre psicologicamente le pene dell’inferno, cui si aggiunge la ricomparsa di problemi risolti da tempo. Uno dopo l’altro, fino alla tragica notte a cavallo tra il 19 ed il 20 luglio 2021.

Io e mia madre veniamo svegliati da una telefonata verso le 02:30: mio papà si è aggravato. Corriamo in ospedale, il momento che mai avremmo voluto vivere poteva essere ormai prossimo. La prima che fanno accedere è mia madre, io rimango in attesa di disposizioni nell’atrio al piano terra, deserto. Nel frattempo mi avevano già incellofanato e mascherato, camminavo avanti e indietro aspettando che qualcuno, dal secondo piano, mi desse il “via libera” per accedere alla stanza di mio papà. I minuti passano, la mia FFp2 si riempie di lacrime e di respiri affannosi tanto da doverla togliere, così esco dalla porta sul retro per una boccata d’aria e per asciugarmi il volto bagnato dal pianto.

La scena è atroce. Sono sul retro della struttura, saranno state le 3 di notte. Attorno a me solo silenzio, tanto silenzio, e buio. Vedo le finestre dell’ospedale chiuse, o comunque a luci spente. Solo una, invece, ha la tapparella ancora alzata e la luce accesa. Che impressione! Non ho difficoltà a riconoscerla, dopo quasi 8 anni trascorsi lì dentro: è la finestra della numero 220, quella luce accesa era il segnale dell’ultima battaglia che si stava consumando in quella stanza. Stare lì fuori ad osservare l’ospedale buio con quell’unica finestra con la luce accesa mi stava lacerando cuore e cervello. Ben peggio è stato quando – nel silenzio della notte – dalla stessa finestra riuscivo a percepire nitidamente i suoni taglienti degli allarmi dei macchinari che tenevano in vita mio papà. Lì giù, ad osservare la finestra, quegli allarmi di morte ad intervalli regolari mi colpivano come raffiche di proiettili provenienti dal secondo piano; ogni volta un dolore lancinante. Confesso di aver pregato affinché tutto finisse subito, l’allarme della stanza trapassava i doppi vetri della finestra e mi raggiungeva nel silenzio di quel piazzale, fino a colpirmi trafiggendomi l’anima.

Rimetto la mascherina e rientro nell’atrio: avrei pianto comunque, ma almeno mi sarei tolto dall’immagine dell’unica stanza con la luce accesa, e da quello stramaledetto suono dell’allarme che rompeva la quiete notturna circostante, fino a strapparmi il cuore dal petto. Poco dopo, un’infermiera mi invita a salire per “salutare” mio padre. Le facce del personale dicono tutto: non sono allarmate, ma sconsolate.

Entro in stanza senza esitare, mia mamma gli è accanto già da mezz’ora, lo accarezza e piange. Lui ha gli occhi bendati, visto che durante la mia assenza l’infiammazione oculare che avevo sempre tenuto serenamente a bada con i “miei metodi”, aveva ripreso il sopravvento e pure alla grande. Mio papà sta soffrendo, respira male e ha entrambi gli occhi coperti da due cazzo di bende. Dio mio, che schifo; a ripensarci mi viene il vomito. Non che vi fosse nulla di disgustoso nel senso stretto del termine: è solo una sensazione di rigetto. Rigetto di quella scena di morte imminente, di sconfinamento della malattia oltre la linea di trincea che avevo faticosamente costruito negli anni, e che era stata svuotata di armi e di soldati da febbraio: una fine annunciata. Lo testimoniano i miei post precedenti.

Guardo i parametri, la situazione è difficile. Era la conseguenza di 6 mesi senza il caregiver: non la risolvi più. Sollevo una benda da un occhio, per capire se mio padre fosse sveglio, vigile: mi guarda, con lo sguardo della disperazione. Impazzisco. Non sono il tipo da sceneggiate teatrali, per carità, ma dentro stavo impazzendo dal male. Ammetto tutta la mia debolezza: nonostante io sia riuscito a parlargli serenamente, ad accarezzarlo e a rimanere composto, sentivo di non poter più assistere a quella scena. Era la resa. Io, che ho lottato per la vita per 7 anni e mezzo affrontando tutto l’affrontabile (come tutti voi, del resto), mi trovavo con le mani legate e con una situazione ormai irrecuperabile, frutto di mesi di follia collettiva. Non ce l’ho fatta e dopo una ventina di minuti ho lasciato la stanza, dicendo a mia madre che sarei tornato a casa, restando in attese di notizie. Lei non voleva andarsene nel modo più assoluto, brava! Io non avrei retto. Non potevamo comunque rimanere in due, per le ridicole misure anticovid, ma in questo caso mi stavano bene: volevo andarmene quanto prima. Non per cattiveria, nè per menefreghismo: stava semplicemente per saltarmi il cuore per aria. Poteva esplodermi, o potevo esplodere io, in un mix di dolore e rabbia che sarebbe stato micidiale.

Una volta a casa, contando lo scorrere del tempo, chiamavo mia madre al cellulare per avere novità, sperando arrivassero: ancora una volta ho desiderato un’accelerazione degli eventi, tanto era terribile quella tortura senza via di scampo. Non riuscivo a tollerare ulteriori agonie, per mio padre e per noi.

Sono le 9 di mattina, cerco di telefonare al medico che da sempre ha seguito mio papà e la nostra avventura in quell’ospedale. Al centralino mi dicono che da quando ha preso servizio è ancora nella stanza, con i miei, quindi riprendo la macchina e torno in struttura. Era giusto ci fossi anche io. Era l’ultimo sforzo, lo sapevo bene. Quando arrivo al secondo piano, il medico mi abbraccia e mi spiega quel che già sapevo: eravamo al limite. L’infermiera fa uscire mia madre nel corridoio, deve effettuare un elettrocardiogramma. Vedendomi appena arrivato e conoscendoci bene, mi dice: “Nicolò, dai, entra, puoi entrare. Io attacco l’elettrocardiogramma e tornerò tra 10 minuti“. Rimango nella stanza da solo con mio papà, con il cuore che mi si sgretola secondo dopo secondo. Noto che il colore del suo viso non è quello di quando lo avevo visto poche ore prima. Lo accarezzo, mi mostro tranquillo anche se il suo sguardo non è più lo stesso. Osservo il foglio che esce dalla macchinetta dell’elettrocardiogramma, il tracciato dà un paio di sobbalzi, poi si appiattisce e diviene una linea retta. Mia madre è sulla porta, mi parla preoccupata e singhiozzante. Non rispondo.

Rientra l’infermiera, si accorge che sto incollato con lo sguardo al tracciato, così le faccio un cenno, come a dire… “è finita“. Lei corre verso il macchinario, prende il foglio tra le mani e scoppia a piangere.

Nei minuti successivi si stringono attorno a noi tutti i medici, gli infermieri, la fisioterapista, gli oss. Ci raggiungono anche dagli altri reparti. Piangono tutti. La dottoressa che con amore ci ha supportato dal primo giorno, lì dentro, piange a sua volta. Si siede e ci confessa: “ho già informato il Direttore Sanitario che non entrerò più in questa stanza, non voglio essere assegnata alla 220, per un bel pezzo.” E aggiunge: “con il personale ci siamo guardati, poco fa, dicendoci che oggi finiva un’era“.

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