All’inizio di questa storia ricordo di aver letto una pubblicazione con un dato che mi raggelò: quali soggetti hanno più possibilità – tra i diagnosticati di SLA – di scontrarsi con una malattia dei motoneuroni oltremodo aggressiva? Gli individui di sesso maschile con esordio bulbare al sessantesimo anno di età.


Uomo, con bulbare dai sessanta: è questa la combinazione che – secondo la statistica – rende più probabile una SLA ancor più violenta di quella che già è in media. Mio padre l’esordio bulbare lo ha avuto 20 giorni dopo aver compiuto le 60 primavere. Fantastico. Giusto in tempo per rientrarci, nella statistica!

Siamo negli ultimi mesi dell’orrendo 2014, da gennaio erano comparsi i primi sintomi di quell’oscena variante di SLA. Se fino all’estate mio papà era ancora un bel papà, pur con qualche limite tale da confermare la diagnosi, il passaggio verso l’inferno in Terra si compiva nell’inverno di quell’anno.

Nonostante le difficoltà conclamate nella comunicazione verbale e nell’autosufficienza fisica, nemmeno ci era passato per la testa di presentarci davanti ad una commissione per ottenere sussidi, contributi ed ausilii. Non che fossimo degli sprovveduti, nè avevamo alle spalle una situazione economica tranquillizzante per via di quanto stava accadendo. Semplicemente preferivamo fare da noi, cavarcela in qualche modo con uno spirito di commovente stoicismo destinato a sfinirci. Ma non importava: chiedere contributi e servizi vari significava, al nostro inconscio, ricertificare che quella mostruosità fosse proprio l’Amiotrofica. Non che non ne fossimo consapevoli, penso si trattasse di qualcosa nell’istinto più profondo, una sorta di riflesso pavloviano di rifiuto nel vedersi – con ulteriore ufficialità – girare il coltello in una piaga che grondava sangue.

Sarà stato dicembre 2014, quando abbiamo recuperato il vecchio walker (deambulatore) del nonno, per consentire a mio padre di spostarsi con un po’ più di sicurezza. C’è un rumore che riesco a rivivere anche oggi, a 5 anni di distanza, in una maniera tanto nitida che provo i brividi di allora. Era notte, quando percepivo – nel buio – un sinistro cigolio dalla camera dei miei: proveniva dalle “ruotine” del deambulatore di mio papà che si alzava per andare in bagno. Quel cigolio che ho sentito la prima volta non potevo cancellarlo più. Avrei potuto nasconderlo al mio udito con il cuscino sulla testa, ma era entrato letteralmente in circolo nel mio sangue al primo ascolto. Quel rumorino di ruote spinte avanti con fatica mi ricordava – notte dopo notte – che da lì mio padre non sarebbe stato più lo stesso, che sarebbe ben presto divenuto un mucchietto d’ossa che si spostano traballando. Un essere, anzi un esserino, indifeso che io avrei dovuto salvare, o almeno sostenere. Sai quando si dice “l’inizio della fine?”. Per me era quello: il cigolio del walker nel buio. Lo odio, quel sibilo, lo risento anche ora mentre scrivo ed è come veleno appena iniettato che si spande nel mio corpo.

Pur non avendo mai smesso di detestarlo con tutto me stesso, quel rumore, per un periodo sono stato addirittura vicino a rimpiangerlo. Siamo nei primi mesi del 2015, mio papà non è più in grado di alzarsi per muoversi con il deambulatore, nè sul letto è più in grado di dormirci. Traslocò così in cucina, su una poltrona elettrica che divenne il suo soggiorno e, in posizione distesa, il suo giaciglio per la notte. Non voleva saperne di sistemarsi in altro modo. Addio walker e cigolii, ma il nuovo rumore di sottofondo alle ore piccole era, però, forse più inquietante. E’ da lì che non sono più riuscito a riposare come si deve, è in quel periodo che le fisiologiche fasi di sonno profondo hanno ceduto tutto il loro spazio al sonno leggero e alla REM.

Ti sto parlando di una finestra temporale in cui – te lo ricordo – non avevamo chiesto nè contributi nè ausilii, di cui ero felicemente ignorante. Mio papà dormiva sulla poltrona, non aveva nè urocondom o sacche, solo un pappagallo a mezzo metro che però non era in grado di afferrare e posizionare. Insomma, era lì per me.

Ogni notte mi svegliava 5 o 6 volte, ma tanto chi riposava più? Era tutto un alternarsi di brevi dormite agitate e stanchi risvegli, suscitati dal suono ancor più disgustoso che aveva soppiantato lo stramaledetto cigolio: un rantolo che mi faceva contorcere le budella dal dispiacere. Mio papà non poteva chiamarmi con una parola, la sua voce non c’era più. Era stata fagocitata da un debole rantolo dal timbro nasale che nel cuore della notte mi faceva correre. Nonostante fosse flebile, era incredibile quanto mi svegliasse al primo colpo: dormivo così male, in ansia, con un sonno tanto leggero che potevo percepire il più lontano ed affaticato dei richiami, senza che fosse necessario emetterne un secondo. Quel rantolo mi faceva pena. Paura, e pena, tanta tantissima pena. Mi lacerava di dolore talmente, che l’unico modo per non sopportarne due di fila era scattare al primo. Non mi alzavo, sobbalzavo. Con il cuore in gola. Non ero pronto ad abituarmi a ciò che restava di mio padre, a tirargli fuori il pisello con i guanti in lattice e infilarlo nel pappagallo per fargli fare la pipì da seduto sulla poltrona reclinabile. Non mi faceva mica schifo, figurati, facevo già ben di peggio. Era solo il gelo del male che mi entrava dentro, nel constatare un concreto passo verso la disabilità più annichilente.

Ecco, se ho voglia di emozioni forti – pur irrimediabilmente negative – mi basta far riaffiorare nella mente il cigolio e il rantolo. Non ho bisogno di ricordarli, la scarica di energia negativa che pervade le braccia sopraggiunge ancor prima di produrre il ricordo vero e proprio.

Pensa, per come va adesso, quanto dannatamente vorrei ritornare al rantolo e a quel cigolio. Anche se mi mettevano i brividi la notte.


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