Voglio raccontarti una storia (vera) nella quale penso molti si rispecchieranno. Lo faccio per ricavarne una critica COSTRUTTIVA al “sistema”, ma sarà oggetto del prossimo post. Il pezzo è articolato ed è bene lo sia: chi legge deve immergersi nel labirinto di guai in cui caregiver familiari e paziente sono imprigionati.
Ricorda sempre che non sono un medico, quanto leggi in questo sito è solo il racconto di una storia e del mio parere personale. Per informazioni attendibili e per qualsiasi iniziativa devi consultare un medico.
F. è una mia amica, da parecchio tempo malata di SLA. Allettata con peg e tracheo ma, nonostante la condizione difficile, è una vera roccia e sta resistendo alla grande. Tra il 2020 ed il 2021 mi spiega che le infezioni batteriche la stando tormentando un po’ oltre il tollerabile. Si era trovata a dover assumere antibiotici più volte, a distanza di poco tempo l’uno dall’altro. Non ancora a livelli di uno al mese, ma il trend era in ascesa. Un fenomeno che conosco e chi ha a che fare con una situazione analoga a quella di F. (SLA, allettata, peg, tracheo) è probabile sappia anch’egli di cosa parliamo.
“Fortuna” vuole che – se la memoria non mi inganna – dal settembre 2021 le cose vanno meglio, tant’è che resta antibiotic-free (scusate l’inglesismo gergale) fino a Pasqua 2022. Da lì arriverà poi fino a Natale di quello stesso anno, quasi avesse uno Pseudomonas resistente alle feste comandate. Non c’era da lamentarsi: spararsi soltanto 2 antibiotici in oltre 15 mesi è roba che molti malati di SLA ci metterebbero la firma.
Torniamo a Natale 2022, dove per F. era il momento di intervenire con un ciclo di antibiotico. Uno dei medici che la assistono, senza richiedere esame dell’espettorato con antibiogramma prescrive una manciata di giorni di trattamento con ciprofloxacina (già usato in precedenza con successo), ma stavolta F. non migliora e la febbre permane. Gli altri indicatori di flogosi come PCR e VES confermano il quadro: l’infezione stava ancora lavorando. Si decide (tardi!) per coltura secrezioni, da cui emerge che la ciprofloxacina era del tutto inutile. L’antibiogramma serve infatti per identificare ex-ante cosa funziona e cosa no.
F. e la sua famiglia mi chiedono una dritta su come muoversi. Non di prescrivergli una terapia, naturalmente, solo uno di quei consigli che ci si scambia tra familiari di malati. Suggerisco di interpellare il centro SLA che ha in carico la paziente, inviando esami del sangue e l’antibiogramma dell’espettorato: era evidente quali fossero i farmaci da non usare e quelli da impiegare. Il centro SLA, come ahimè temevo negli abissi del mio inconscio, risponderà che l’antibiotico giusto è somministrabile solo in ambito ospedaliero. Un bivio: il ricovero oppure tentare un secondo farmaco, anche se non incluso nell’antibiogramma e quindi dall’esito incerto.
F. rifiuta il ricovero e non perchè matta. Piaccia o no, questa è la realtà: un paziente SLA vede in esso l’extrema ratio e farà sempre di tutto per evitarlo. Se sei nelle precise condizioni di F., hai forse già chiaro il motivo, altrimenti è giusto che te lo spieghi affinchè tu possa capire e seguire il prosieguo.
Perchè un malato di SLA allettato e con comunicatore oculare, portatore di peg e tracheo, chiede di evitare il ricovero? Nulla a che fare con sfiducia nei medici o nel personale sanitario, ma la semplice consapevolezza che la degenza – per un soggetto di questo genere – comporta una lunga serie di fatiche, aggiustamenti, adattamenti e quindi sofferenze che finchè puoi (o pensi di potere) le tieni lontane. Se c’è qualcosa che puoi fare a casa, senza sconvolgere i tuoi preziosissimi equilibri, è chiaro che scegli questa opzione e non vuoi sentir ragioni.
Fatta la scelta di rifiutare il ricovero (cioè niente antibiotico giusto, purtroppo solo disponibile in ospedale), il centro SLA propone l’impiego di un farmaco alternativo rispetto a quelli indicati dall’antibiogramma. Una settimana di trattamento, dopo la quale F. – seppur leggermente migliorata – riferisce di una persistente febbricola. Non un bel segno, sentivo puzza di cilecca lontano un miglio.
A marzo 2023, chiacchierando con un suo familiare (siamo amici da secoli), questi mi condivide i risultati dell’ultimo esame del sangue. PCR e VES parlano da sole e la sparo: “F. tornerà ad avere bisogno di antibiotico, non tra molto tempo. Una grana è in arrivo.” Non faccio il medico, nemmeno il profeta o l’indovino: dopo 8 anni accanto a mio padre, avevo capito che i medici valutano PCR e VES per decidere quando – in un soggetto cronicamente infetto – è il caso di intervenire. Per F. mi sembrava che l’evenienza fosse dietro l’angolo, a causa del mezzo fallimento dell’intervento di dicembre che non ha mai “domato le fiamme” davvero.
Aprile 2023 – Ad F. viene una bella febbre, sta male. La famiglia ed il medico procedono con l’antibiogramma. “Andremo sul sicuro e memori della precedente cilecca eviteranno esperimenti“, ho sospirato. Come è finita? Un calvario. Il centro SLA propone di nuovo il ricovero (è normale, per carità) per ulteriori accertamenti e soprattutto per l’antibiotico giusto, visto che non è impiegabile a domicilio; diversamente – secondo loro – va riutilizzato il farmaco di dicembre. Ehm, sì… proprio quello che aveva fatto cilecca (!!!). Da amico, mi permetto allora di consigliare ai famigliari un secondo parere, meglio se da parte di un infettivologo. Ne cercano uno e, non senza difficoltà, lo trovano. Questi però fa spallucce: o ricovero o non prescrive nulla, ma almeno sentenzia sull’antibiotico a domicilio che il centro SLA ha suggerito a dicembre e riproposto qui in aprile. “È acqua fresca“, dice l’esperto di malattie infettive ai familiari di F..
Non vi è una alternativa al ricovero per un caso come questo, per un paziente che (comprensibilmente) lo rifiuta? Prima di giudicare: pensati muto, immobile, con difficoltà a respirare, un ventilatore in gola ed essere ricoverato per qualche flebo. Risposta: no, non c’è alternativa per l’antibiotico ospedaliero, quello che l’antibiogramma stabilisce che avrebbe funzionato a dovere. O ricovero, o nisba.
Dato che F. rifiuta il ricovero trovando assurdo che non possano – viste le sue condizioni – somministrarglielo a casa, il medico di base prescrive un altro antibiotico (presente nell’antibiogramma). Tale farmaco, scrivono nell’esito, funzionicchierebbe contro lo Pseudomonas di F., a patto di usarlo ad alte dosi. A scanso di equivoci: le alte dosi sono menzionate nell’esito. Il dottore sceglie quindi un dosaggio… alto? Macchè, lo imposta basso (!!!) e per una durata adatta a curare un lieve mal di gola batterico di un sano. I familiari di F. mi confidano qualche perplessità.
Per me i casi sono due. Non so quale, ma di certo uno tra questi: o siamo di fronte ad una attenta personalizzazione della cura in base alle reali esigenze e caratteristiche della paziente, oppure il medico di base ha toppato. Ai miei amici devo dire cosa penso ed insisto che cerchino quanto prima un cavolo di infettivologo. Gli specialisti, d’altronde, servono a questo. Ne intervengono due, a distanza, scovati tramite conoscenze personali dei familiari. Eccoti il primo: “L’antibiotico che sta facendo ora non è quello migliore, e comunque funzionerebbe solo ad alto dosaggio. Va triplicata la dose rispetto a quanto prescritto dal medico di base.” Ed ecco il secondo: “La terapia attuale mostra una sensibilità solo intermedia, mentre quella ideale sarebbe l’antibiotico ospedaliero“.
Morale della favola? F. oggi sta molto male, i suoi valori sono peggiorati. Ha perso tempo a dicembre con un antibiotico inutile, ed ancora in aprile 2023 sottoposta per giorni a bassi dosaggi di una terapia che “funziona a metà, e solo ad alte dosi”. La vicenda è in corso, non ne conosco gli sviluppi.
Prima di concludere questo primo post (ne seguirà un secondo con il consiglio che porterò ad enti ed istituzioni) penso sia giusto interrogarsi su chi siano – ammesso esistano – i colpevoli di questa situazione.
- F. ha la colpa di aver rifiutato il ricovero? I medici non lo proponevano per sadismo, bensì per approfondire e impiegare l’unico antibiotico corretto per il suo caso (di uso ospedaliero). D’altra parte, però, per comprendere il temporeggiare di F. bisogna pensarsi dentro la sua condizione, con le sue stesse paure, le sue stesse sofferenze e le sue legittime domande.
- Il centro SLA ha delle colpe? Se F. ha evitato il ricovero (ma non giudichiamola, se non abbiamo un tubo nel collo), l’aver riproposto un antibiotico che aveva fatto cilecca pochi mesi fa, in effetti non sembra una grande idea. È un infettivologo ad averlo definito “acqua fresca” di fronte ai familiari di F.. Chi ha ragione?
- Il medico di base ha colpa? Ha cannato la terapia in dosaggio e durata facendo perdere giorni preziosi (lo dicono i due specialisti interpellati dai familiari). A sua discolpa, beh… che non fa l’infettivologo.
- Gli infettivologi, per essersene lavati le mani? Due si sono espressi: uno limitandosi a bocciare la cura suggerita dal centro SLA senza però andare oltre (in mancanza di un ricovero); l’altro ha suggerito tra le righe la terapia corretta, ma di questa te ne fai poco se non hai una prescrizione. Non considero gli infettivologi due novelli Ponzio Pilato, hanno le loro ragioni: formulare una terapia a distanza e per un paziente fragile li esporrebbe ad eventuali rischi.
Come vedi, ho distribuito ad ognuno una colpa ed un’attenuante. Anzi, se vuoi saperlo a me di chi ha la colpa non interessa un bel niente. Ho solo una domanda, in testa: “si può evitare tutto ciò? Esiste una soluzione di buonsenso?“. Secondo me sì e mi meraviglio che nessuno ci abbia pensato prima. Ne parlerò nel post successivo, cercando di farlo arrivare a chi può metterci del suo per ottenere qualcosa di concreto e di facile attuazione. Basta volerlo.
Qui, il difetto sta nel manico.