Una precisazione: il post non è polemico, è solo un punto di vista condito con un po’ d’ironia, per sdrammatizzare e sorridere.
Accendo la televisione e – manco a dirlo – m’imbatto in un lungo speciale sul Coronavirus. Il conduttore apre prendendo le distanze dal battage di queste settimane, sottolineando che la sua è una trasmissione differente: “qui vogliamo fare informazione, non allarmismo!“. Oh bene, seguo volentieri. Inizia. “I contagiati sono 10.152, anzi no, 10.153 e mentre dicevo il 3 finale di 10.153 sono diventati 10.154. Ora che cambio inquadratura saranno 10.155!”. Rileggete questa frase due volte, immaginandola nella mente con cadenza, intonazione e timbro come se a pronunciarla fosse Salvo Sottile (l’ho scelto a caso per la voce, non sto parlando di lui!), e ditemi se non è inquietante. Ci manca solo sotto la musica dello squalo, da brividi!
Giunge in men che non si dica uno tra i momenti più attesi del programma, una diretta esclusiva con persone che – per l’enfasi dei toni e la musica di sottofondo nell’introduzione – ti aspetti siano in collegamento … che so… da Marte, dall’Amazzonia per documentare un incendio o da sei mesi in una zona di guerra. Come minimo. Macchè! La coppia di oggi ci porta dritti dentro nel dramma vissuto dal divano di casa: un ingegnere di una multinazionale e la moglie, impiegata in un ente pubblico, sono “costretti” tra le (calde) mura domestiche dalle misure cinesi… del governo italiano. Con loro – naturalmente – anche i figli (ben tre!).
Le domande dei giornalisti si fanno incalzanti, cambiano gli sguardi, le espressioni si fanno serie, i toni più solenni. Prima di iniziare, il conduttore deglutisce, poi sospira: “Giangiacomo e Veronika (nomi di fantasia), come si vive senza poter uscire di casa?“. “E come fate con i bambini?“. Grottesche le risposte degli intervistati: “È dura andare avanti così, ma dobbiamo resistere per il bene comune“. Stoicismo in arrivo a vagonate, peccato che a raccontarci quanto sia ardua la sopravvivenza non abbiamo due soldati in trincea nel bel mezzo di un bombardamento aereo, un infermiere precario e sfinito in corsia, nemmeno due genitori che arrancano per sfamare la famiglia. Sarà che ho una “soglia della sfiga” particolarmente alta, eppure il quadretto dei coniugi-via-Skype a me pare piuttosto roseo. Cazzo, qui si sfiora quasi l’idillio: a parlarci di tempi duri è il papà mentre con le mani modella l’impasto per una crostata di albicocche con marmellata bio, intanto che la moglie si sbatte per cercare un cartone animato per la figlioletta, smanettando su un 82 pollici che prende tre quarti della parete del salotto. Ma non è tutto rosa e fiori, la preoccupazione comunque la si avverte nell’aria, è palpabile. “I bambini (per altro tutti belli, sani, educati e ben vestiti, ndr) vanno tenuti occupati, non è facile per una giornata intera”, chiosa la giovane moglie hi-tech. Nel frattempo il marito tira la sfoglia con l’impastatrice elettrica che manco si sporca il cardigan, sotto lo sguardo curioso del figlio grandicello che pregusta una sana merenda casereccia. Io non ho figli, nè una moglie, nè un plasma-smart-tv-wi-fi-con-Youtube, forse non posso capirli fino in fondo. Limite mio, senz’altro.
E sì che resto convinto non ci sia bisogno di essere nati in una favelas, per comprendere – pur da lontano – i drammi nel mondo, ma è più forte di me: per la famigliola in collegamento, proprio stento a provare empatia. Fatico a tormentarmi – come invece i giornalisti – sulla necessità o meno che lo Stato fornisca loro supporto psicologico. Riusciranno i nostri eroi a resistere due settimane, tra Peppa Pig on-demand e l’Home Banking per controllare se il 27 del mese lo stipendio verrà accreditato prima o dopo mezzogiorno? Con torte Cameo da infornare, pay-tv e il posto fisso che cascasse pure il mondo gli è garantito, non dev’essere l’inferno, suvvia. Beninteso, nessuna colpa all’allegra famiglia: beneficiano di scelte di vita anzitutto giuste e di un fato che non ha presentato grandi scossoni (la sorte ha il suo peso, ma l’ho messa per ultima).
Per carità, capisco che noi con la SLA in casa viviamo in una dimensione tale dove certe vicissitudini ci farebbero il solletico, però porco cane… I nostri nonni hanno fatto la guerra e, senza scomodare nè la SLA nè i bambini dell’Africa, già col Coronavirus in Italia c’è gente che sta male in ospedale o che muore. E poi piccoli imprenditori, liberi professionisti o dipendenti precari che con le conseguenze economiche che ne verranno passeranno un mare di guai chissà fino a quando… Per tutti questi sì che la situazione è dura! Più che di supporto psicologico – oserei dire – c’è bisogno di sostegno concreto (nella sanità per operatori e malati, economico/finanziario per il mondo del lavoro).
Perdonami se sembro inacidito, ma da settimane giornalmente le Tv mi propinano coppie felicemente stipendiate, impegnate a fare ginnastica o a sgusciare gamberoni, che ci descrivono le asperità della vita live dall’Ipad, dove il guaio più rognoso della giornata è il bambino che vorrebbe un’altra app sull’Iphone. Viviamo veramente in un mondo dove profondere drammaticità per due tizi nel quadrilocale alle prese con la leccarda da imburrare, lo stipendio pagato e nessuna ansia per arrivare a fine mese? Questa, e nient’altro, è la mia piccola critica.
Va bene tutto, ma – per favore – diamoci un taglio col pathos anche per Giangiacomo e Veronika, almeno per ste cose. Eddai.
Se il mio blog ti piace, ti tiene compagnia e vuoi premiarne la qualità dei contenuti, puoi sostenerlo con una donazione qui sotto