La foto ben rappresenta quanto avrei fatto quando ho scoperto quel che sto per raccontarti. Dopo una pausa per cause di forza maggiore, riparto con la storia di questo incredibile quanto mostruoso biennio (2014 – 2016). Devo avvertirti subito di una cosa che ritengo fondamentale: se vuoi capire bene quanto ti sto per spiegare – per poi farti la tua idea – è indispensabile che tu rilegga i miei articoli precedenti nella categoria metalli pesanti (a questo link). Se non lo fai, sono pronto a scommettere che per te – che non hai seguito direttamente la vicenda – non sarà mai ben chiaro quello che sto cercando di illustrarti. Prenditi 10 minuti, vai al link che ti ho indicato e fai un ripassino delle puntate precedenti. Fidati. Poi ricomincia da qui.


Ricorda sempre che non sono un medico, quanto leggi in questo sito è solo il racconto di una storia e del mio parere personale. Per informazioni attendibili e per qualsiasi iniziativa devi consultare un medico.


Bene, allora saprai che nell’ospedalone del Nord in cui mio padre – tra giugno ed agosto 2014 – ha ricevuto la tegola della diagnosi, tra gli accertamenti “differenziali” fu fatta un’indagine di routine su sangue e urine, per capire se si poteva escludere l’intossicazione da piombo. Gli esiti furono negativi. Poco più di un anno dopo, durante il quale dei metalli non me ne è mai fregata una mazza, capisco che è ora di guardarci dentro quando stava ormai finendo l’estate del 2015. Tramite circostanze folli riuscirò in quel periodo ad arrivare davanti ad un team di ricercatori di una prestigiosa università italiana, i quali vantano decine di pubblicazioni scientifiche (che per altre pazzesche combinazioni già avevo letto e conoscevo a memoria!), molte delle quali sul collegamento tra malattie neurodegenerative e metalli tossici: una imperdibile occasione per indagare anche in questo campo! Siccome non mi fido nemmeno di me stesso, grazie alla mia incessante curiosità inizio a sviscerare la materia da solo, prima di quell’incontro.

Mi muovo – come sempre – seguendo le pubblicazioni sulle riviste internazionali (scoprendo che anche all’interno della medicina, le correnti di pensiero sono differenti). Mi balza all’occhio un recentissimo studio pubblicato da statunitensi che tratta della neurotossicità del cadmio, e dice:

Consequently, blood, hair, and urine Cd levels are poor surrogates for body burden and chiefly reflect recent exposure, as is also true with the other heavy metals. Accurate estimate of body burden of Cd will require urine provocation testing.

Traduco. Conseguentemente, i livelli di cadmio nel sangue, nel capello e nelle urine sono scarsamente attendibili e riflettono solo una recente esposizione, cosa nota anche per gli altri metalli pesanti. Una stima accurata richiede un test di provocazione, sulle urine.

Come, come, come? Ho capito bene? Cercare i metalli nel sangue e nelle urine (proprio come è stato fatto a mio papà per la diagnosi differenziale) è… fuorviante? Rileggo, e confermo: senza un test di provocazione, i livelli riscontrati non sono attendibili, ed individuerebbero – eventualmente – solo una recentissima ed acuta intossicazione, non un lento e costante accumulo nel tempo che può poi portare ad una degenerazione. Proseguo nella lettura dello studio, e sobbalzo di nuovo.

The half life of cadmium in the blood has been estimated at 75 to 128 days, but this half life primarily represents deposition in organs, not clearance from the body.

Traduco. Il livello del cadmio (e lo studio si riferisce anche agli altri metalli) nel sangue è riscontrabile fino ad un tempo compreso tra i 75 e i 128 giorni, dopo i quali non si trova più. Ma non perchè se ne è andato dall’organismo, bensì dal sangue si è via via depositato negli altri organi.

Tante volte – se hai letto il mio blog – mi sono trovato ad esclamare qualche parolaccia. Questa fu un’altra di quelle. Ricapitoliamo: a mio padre, nel percorso della differenziale, hanno cercato il piombo nel sangue e nelle urine. Piombo che però, come gli altri metalli, nel sangue e nelle urine rischi fortemente di non trovarlo più: non perchè non c’è, ma perchè dal sangue si è poi depositato nel cervello e negli altri organi, quindi c’era la possibilità che l’avessero cercato nel posto sbagliato e nel modo sbagliato? Sì. Un’altra volta?! Ancora, dopo la borreliosi, un’altra strada di quella maledetta differenziale era stata forse percorsa in modo approssimativo? Può essere! Incremento tutte le possibili verifiche del caso, a breve avrei avuto l’appuntamento con i ricercatori dell’università e volevo andare preparato. Consulto altri studi e… porca di quella… in altri trovo lo stesso concetto: i metalli pesanti stanno nel sangue (quindi nelle urine) solo per poche settimane, dopo di che scompaiono da lì per depositarsi altrove e far danni (cervello, intestino e fegato in primis). L’analisi corretta richiedeva – secondo questa teoria – quel cazzutissimo test di provocazione, che a mio padre non fu fatto. Va detto, per dovere di cronaca, che quegli esami li vedettero anche altri neurologi di importanti centri di riferimento per la SLA, e nessuno battè ciglio. Chi aveva ragione? Chi sosteneva l’importanza del test di provocazione, o chi ricercava l’intossicazione acuta? Non lo so, sono solo qui per raccontarti la mia storia e aprire una riflessione.

Visto quanto sopra, come andare a scovare possibili metalli pesanti che si sono accumulati negli organi che contano? Semplice (ma guai al fai-da-te!): ti immetto in vena una sostanza chelante – ovvero che ha la capacità di attirare metalli – affinché venga trasportata dal sangue ai vari organi; è qui che, se dei metalli ve ne sono, essi si legano al chelante per rientrare nel circolo del sangue giungendo infine ai reni, per essere escreti nelle urine. Su quelle urine vanno verificati i livelli dei metalli! Fare il test senza somministrare il chelante, significa andare a cercare mele volgendo lo sguardo solo sul prato, senza aver prima guardato in alto e scosso l’albero, non so se mi spiego. Ma fin qui è troppo facile, sono sicuro che qualcuno dei miei lettori avrà già fatto anche questo tipo di esame, magari da qualche “medico alternativo”, con risultati di dubbia interpretazione e trattamenti inefficaci a prescindere.

Da buon attento al dettaglio, provo a sviscerare la questione, tra critiche e contraddizioni.

Punto primo. Esistono anche studi scientifici che considerano inaffidabile la tecnica della provocazione. La sconsigliano non criticando il metodo in sè (cioè che i metalli nel sangue non ci sono, perchè dopo poco si depositano negli organi, e vanno quindi “stanati”), ma solo perchè non esisterebbero valori di laboratorio di riferimento in grado di comparare il livello di metalli in soggetti sani e in soggetti malati, dopo test di chelazione. Cioè se io faccio il test di provocazione e mi esce che ho livelli di piombo mille miliardi di volte sopra la soglia massima (calcolata su soggetti sani non-chelati), non devo minimamente preoccuparmi? E poi: i ricercatori che invece sostengono l’imprescindibilità del test di provocazione, avendo pubblicato lo studio, avranno ben chelato anche dei sani in modo tale da avere un minimo riferimento, no? Le mie sono domande, naturalmente.

Punto secondo. C’è chelante e chelante, c’è metodo di chelazione e metodo di chelazione. Affermare: “anche io ho fatto il test” – e poi – “anche io ho chelato“, non vuol dire assolutamente nulla. Il test con che chelante? E come hai chelato? Con cosa? Per quanto tempo? Con quali controlli successivi?

Punto terzo. Chelare (=togliere metalli tossici) non equivale certo a rigenerare i neuroni già bruciati. Non dimenticartelo. Anche in questo caso, come per la borreliosi, io volevo solo una diagnosi differenziale quanto più approfondita. Non cercavo illusioni nè facili (e false) speranze.

Ne avrei ancora di considerazioni, ma per ora fermiamoci qui, non voglio rincoglionirti. E siccome – tornando a quanto ho detto all’inizio del post – non mi fido di nessuno – ho fatto anche io un piccolo studio pilota (semiserio) che pubblicherò prossimamente. Che figata!

Nel prossimo articolo ti racconterò dell’attesissimo incontro con i ricercatori della grande università italiana, ti dirò cosa ci siamo detti e cosa abbiamo fatto per verificare – finalmente bene – anche questo tassello della diagnosi differenziale.


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2 Comments

  1. quando leggo i tuoi ragionamenti…..mi sembra impossibile che ci sia in giro una “manica ” di coglioni…..medici,dottori,professori,scienziatoni…..qualche giorno fa una signora con sla da uno dei miei due neurologi si è sentita rispondere alla domanda “ma c’è qualche farmaco ,qualche terapia,stanno provando qualcosa in giro? “, NO signora,stanno cercando,ma ancora non c’è niente!!! bisogna farsene una ragione!!!!!!!!!!!!!!!! non commento!!!

    1. Grazie Donatella per i tuoi complimenti e la tua stima. Purtroppo io sono un pirla qualunque e non ho granchè per alzare la voce, visto che non sto certo vincendo la guerra. Da incompetente so almeno di poter dire che si doveva fare molto di più e molto prima: questo sì che posso dirlo ad alta voce, almeno oggi che ho anche qualche “grande nome” che mi dice che non sono del tutto rimbecillito. Certo, magrissima consolazione.

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